L’espanyol

Lo spagnolo è, fra le lingue latine, quella più diffusa nel mondo: 380 milioni di ispanofoni sparsi in quattro continenti. Non si tratta solo della principale lingua di Spagna, terra che gli ha dato il nome, ma anche del mezzo di espressione privilegiato a cui fa ricorso la maggior parte dei paesi d’America, continente in cui si concentra la maggior parte di locutori. Lo spagnolo è anche presente in Africa e in Asia, dove, sfortunatamente, tende a scomparire. Negli Stati Uniti, lo spagnolo è la seconda lingua per grado di diffusione, senza contare che in certe zone è più usata dell’inglese. Una particolare variante arcaica, lo spagnolo-giudaico, sefardita, si conserva ancora presso certe comunità ebree sparse nell’area del mediterraneo.

Lo spagnolo, originario dell’antico regno di Castiglia, è conosciuto anche sotto il nome di castigliano. La due denominazioni sono equivalenti, anche se il termine “castigliano” si riferisce più specificatamente alla variante parlata in Castiglia.

Si può stabilire un certo parallelismo tra il destino del latino e quello dello spagnolo, nella misura in cui il latino inizialmente si è esteso in una piccola regione della penisola italiana, prima di diventare la lingua principale del più grande impero dell’Antichità. Il percorso storico dello spagnolo, a partire dalle sue origini fino ad arrivare alla sua attuale estensione, che ne fa una delle cinque lingue più importanti del mondo, è simile a quello del latino. Derivato dal dialetto latino di una piccola contea sotto il regno di León alla sua nascita è considerato come una lingua barbara da parte degli uomini della corte di León. Situato sulla frontiera difensiva con il regno mussulmano, la contea di Castiglia acquista a poco a poco la sua indipendenza dal regno di León giungendo fino ad assorbirlo e fino a condurre le guerre dei regni cristiani della penisola contro i Mori. Non appena terminata la Riconquista, la Castiglia estenderà la sua influenza oltremare, fino alle terre ancora sconosciute dell’America.

Dopo aver sconfitto i cartaginesi, insediati a partire dal VII secolo a. C. nel Sud della penisola iberica, i romani completano la loro conquista nel III secolo d. C. Gli abitanti originari non resistono al contatto con la cultura più sviluppata degli invasori: assumendo i loro usi, i loro costumi e la loro lingua, essi si romanizzano completamente. Le popolazioni del Sud vengono rapidamente assimilate, quelle del Nord oppongono una resistenza più tenace: delle lingue parlate dagli autoctoni, solo il basco resiste fino ad oggi. Le altre spariscono, lasciando solamente qualche traccia nel vocabolario e nei nomi di luoghi attuali. Gli iberi - popolo non indoeuropeo, come i Baschi - hanno lasciato delle iscrizioni molto più antiche che non hanno potuto essere decifrate ma che attestano la presenza di più di mille parole.

Nel III secolo a. C., le invasioni germaniche si estendono in Occidente, facendo culminare nel V secolo a. C., il processo di disgregazione interno che avvia la fine dell’Impero romano. Tutte le comunicazioni con Roma vengono quindi interrotte, le province si ritrovano isolate, tagliate fuori dall’influenza degli antichi centri culurali. Questi fattori di dispersione, inevitabili su un territorio così vasto, conducono alla frammentazione del latino e favoriscono il consolidamento delle varianti popolari.

Frattanto i Goti assimilano i dialetti latini dei popoli con i quali vivono a contatto e se ne appropriano a poco a poco. La conversione del re Recaredo al cristianesimo nel 589 determina la fusione tra gli invasori e le popolazioni sottomesse e la romanizzazione totale dei primi. I Goti portano essenzialmente degli elementi lessicali al latino popolare, gran parte dei quali esistono ancora oggi, mentre la sintassi e la morfologia restano quelle delle numerose varianti del latino. A partire da quel momento, la lingua si allontana dal latino classico e si evolve differentemente a seconda delle regioni. Alcuni dialetti differenziati si affermano, come il catalano e il castigliano, quest’ultimo nella zona che fu romanizzata per ultima. Questi dialetti conosceranno fortune diverse nel corso dei secoli successivi.

 

All’inizio del VII secolo, gli Arabi invadono in meno di sette anni la maggior parte della penisola fatto eccezione per una piccola regione nel nord e, fino al X secolo, l’arabo sarà la lingua della cultura e dell’amministrazione. Tuttavia, gli abitanti cristiani delle zone occupate, negli scambi quotidiani, continuano ad utilizzare i loro dialetti, influenzati dagli elementi arabi e da forme arcaicizzanti. Questi dialetti sono chiamati “mozarabi”, proprio come i loro locutori. Nel dettaglio, gli esempi più antichi di frasi complete nella penisola sono le “jarchas”: scritte in alfabeto arabo o ebreo, queste composizioni liriche dell’XI e del XII secolo corrispondono, una volta trascritte, ad una lingua arabo-andalusa, il romanzo mozarabico.

Il fatto che la Castiglia detenga l’iniziativa politica e militare della Riconquista man mano che avanza da nord a sud, permette al castigliano di imporsi non solamente sui dialetti mozarabi, ma anche su quelli parlati dalla maggior parte dei regni cristiani. Alcuni di loro spariscono quasi completamente. Il castigliano si arricchisce di apporti provenienti dai dialetti locali sui quali si sovrappone e numerosi elementi arabi vengono perciò integrati alla lingua.

Solo il catalano e il gallego-portoghese resistono alla pressione del castigliano. Il catalano arriva ad imporsi e ad estendersi territorialmente fino a dominare tutta l’estremità meridionale della costa di levante e le isole Baleari - dove continua ad essere parlato anche ora con delle varianti regionali. Il gallego-portoghese si divide in due varianti: una resterà confinata in Galizia e correrà addirittura il rischio di scomparire, al contrario l’altra sarà la lingua del regno del Portogallo, fondato nel 1139. Divenuto portoghese, l’antico gallego-portoghese continuerà il suo cammino verso il sud e si diffonderà posteriormente in Asia, in America e in Africa.

Lo sviluppo crescente della potenza politica e militare della Castiglia permette l’apparizione in castigliano di una produzione letteraria popolare ritrasmessa oralmente sotto forma di canzoni di gesta recitate in tutto il regno. Questo fenomeno contribuirà a dare una reale unità linguistica a ciò che prima era solo un’ accumulazione di elementi dialettali. Dal 1252 al 1284, durante il regno di re Alfonso X, il Sapiente, il castigliano conferma la sua vocazione di lingua dotta. Fino ad allora utilizzato unicamente per la comunicazione corrente e per la letteratura orale, il castigliano, da quel momento in poi, viene usato per la redazione dei primi testi scientifici e letterari, riguardanti principalmente gli usi in vigore a Burgos, attenuati da elementi di Toledo e di León. Il castigliano diviene la lingua della poesia epica, mentre il gallego portoghese resta la lingua della poesia lirica.

Il consolidamento del castigliano ha come conseguenza la sua purificazione, così come un arricchimento importante del suo vocabolario. Nel 1492, anno che segna la fine della dominazione araba nella penisola e la scoperta del Nuovo Mondo, Antonio de Nebrija presenta ai Re Cattolici la sua Gramática. Per la prima volta nella storia della latinità, una lingua derivata dal latino diviene oggetto di uno studio. Poco dopo, nel 1499, la Tragicomedia de Calisto y Melibea rivelerà che questa lingua, che inizia a chiamarsi spagnolo, può essere il veicolo di una grande letteratura. Il XVII secolo si affretta a dimostrarlo: è il secolo di Don Chisciotte.

Nel XVI secolo il potere spagnolo è al suo apogeo e investe non solamente i territori del Nuovo Mondo, ma anche una gran parte dell’Europa. Scambi linguistici molto intensi si producono all’occasione dei molteplici contatti tra i diversi popoli. Il castigliano viene appreso nei più alti ambienti europei, e le opere degli autori spagnoli sono recitate con successo nelle corti reali. Alcuni ispanismi si introducono in altre lingue latine e, inversamente, queste ultime penetrano nello spagnolo. La nuova realtà che è l’America, suscita anche una integrazione considerevole di vocaboli e di nuove costruzioni nella lingua spagnola.

Nel corso di questo secolo, nella pronuncia si verificano numerosi cambiamenti che allontanano lo spagnolo attuale dall’antico castigliano. Questo fenomeno culmina nel XVII secolo e spiega le divergenze che esistono oggi fra questa lingua e le altre lingue neolatine. È il caso della pronuncia spagnola della lettera “j”, la jota e l’assenza di differenze nella pronuncia tra la “v” e la “b”.

Un ampio dibattito anima gli specialisti sulle cause delle differenze fonetiche esistenti tra lo spagnolo parlato in Spagna - che d’altra parte non è lo stesso in tutta la penisola - e quello parlato in America. Una delle spiegazioni avanzate è che, congiuntamente ai grandi cambiamenti nella pronuncia, la Spagna lancia le sue navi all’assalto del Nuovo Mondo, con marinai e soldati provenienti da diverse regioni della Spagna. Certamente, la controversia non è finita.

Lo spagnolo acquisisce la notorietà grazie alla creazione nel 1713 della Real Academia de la Lengua che pubblica a partire dal 1726 il Diccionario de autoridades, poi nel 1771, la prima edizione della Gramatica, costantemente rivista e che resta un’opera di riferimento. Quindi, malgrado le particolarità regionali, l’unità della lingua spagnola si mantiene. Nel corso di più di cinque secoli, la sua ricchezza e la sua flessibilità sono state e sono tuttora il vettore privilegiato per la comunicazione fra i popoli dei due versanti dell’Atlantico. L’elaborazione di politiche linguistiche combinate tra i paesi ispanofoni e i mezzi moderni di diffusione e di comunicazione che limitano le variazioni fonetiche, sintattiche e lessicali, hanno permesso di preservare l’integrità dello spagnolo.

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